“Esiste un grande scollamento tra il momento valutativo/diagnostico e quello riabilitativo. La diagnosi dovrebbe essere il primo passo di un processo terapeutico, così da avere non solo un’etichetta ma un quadro completo del bambino”. Per Magda Di Renzo, responsabile del servizio Terapie dell’Istituto di Ortofonologia (IdO), è questo il problema principale nel ‘Ripensare le pratiche riabilitative in età evolutiva’. Argomento che ha animato la diretta facebook promossa dal Centro medico sociale ‘Don Orione’ di Savignano Irpino, con il suo direttore Fabrizio Lanciotti e gli psicoterapeuti Marco Carpineto e Claudia Govetto.
Al centro del confronto la necessità di promuovere una migliore integrazione delle discipline terapeutiche, per ridare la giusta importanza ai bisogni evolutivi del bambino. Ed è proprio guardando alle necessità del bambino che Di Renzo sottolinea come, nel valutarlo, “va restituita alla famiglia non soltanto la diagnosi del disturbo, ma un quadro di come quel disturbo si declini nel caso specifico e di quali siano le potenzialità che l’accompagnano. Lo scollamento tra il momento diagnostico e il momento riabilitativo fa sì, invece, che le riabilitazioni siano fatte con un modello che rischia di essere uguale per tutti, senza tenere conto delle esigenze di ogni singolo bambino”.
Per la psicoterapeuta un esempio su tutti sono le diagnosi dei disturbi neuroevolutivi: “I dati ci dicono che c’è una percentuale del 3-4% di bambini nei quali si può riconoscere un disturbo neuroevolutivo. Tutti gli altri, e sono un numero cospicuo- sottolinea Di Renzo- sono bambini che mostrano difficoltà negli apprendimenti ma non hanno un disturbo. È una differenza fondamentale- ribadisce la psicoterapeuta- perché se tratto allo stesso modo il bambino che ha un disturbo e il bambino che non lo ha, ma magari viene da un ambiente che non è stato stimolante in quanto sono successe varie cose all’interno della famiglia, faccio un errore terribile: lo patologizzo. Se poi prolungo la terapia, rischio di cronicizzarla. Quindi il vero problema- evidenzia Di Renzo- non è tanto che vengano proposte sempre le stesse terapie, ma che queste terapie vengano proposte con le stesse modalità e senza tener conto delle differenze individuali”.
Inoltre, “la fretta non aiuta mai un’espansione dei potenziali cognitivi presenti”. Di Renzo pensa ai bambini mandati a scuola anzitempo perché “tra i requisiti viene considerata solo la loro capacita’ cognitiva quando, in realtà, questo è uno degli aspetti da prendere in considerazione. L’altro, fondamentale, è che il bambino abbia raggiunto un’adeguata capacità affettiva, che riesca a stare fermo e seduto al banco, che regga la frustrazione di un brutto voto, che stia concentrato. Ecco allora- dice la responsabile del servizio Terapie IdO- che ci troviamo col paradosso di mandare il bambino avanti e poi, magari, in seconda elementare cominciano a emergere dei problemi per cui il bambino viene medicalizzato. C’è troppa fretta, c’è un modo di andare verso l’efficienza che taglia fuori l’osservazione della capacità dei bambini di rispondere alle loro tappe di sviluppo da un punto di vista emotivo. Noi pretendiamo che il bambino scriva sul rigo anche se non si sa allacciare le scarpe o prepararsi lo zaino, mentre non comprendiamo quanto queste attività siano assolutamente propedeutiche per la concentrazione e le funzioni esecutive. E’ come se ci fermassimo solo sull’ultimo passo che è appunto la prestazione”, chiosa Di Renzo.
Per affrontare e valutare le problematiche di un bambino “serve un’equipe multispecialistica e anche un’alleanza tra i sistemi nei quali il bambino vive: scuola e famiglia”, sottolineano i relatori. “Se ci fermiamo solo sul sintomo e non capiamo la difficoltà di comunicazione del bambino- evidenzia Di Renzo- in realtà non lo aiutiamo veramente. Il rischio è portare avanti una terapia senza capire che c’è un confine tra ciò che appartiene all’ambito sanitario e ciò che appartiene all’ambito pedagogico. Molti bambini che non hanno un disturbo neuroevolutivo potrebbero essere aiutati maggiormente in un contesto educativo. Se non teniamo conto di questa realtà- ribadisce Di Renzo- rischiamo di usare un modello terapeutico che utilizzavamo trent’anni fa e che oggi non è più adeguato”.
Un progetto all’avanguardia, ad esempio, è Summer Camp del Centro Don Orione. È un’iniziativa di inclusione e partecipazione ad attività sportive e ricreative, volta a rafforzare e favorire lo sviluppo della socialità e delle relazioni tra ragazzi con disturbi del neurosviluppo, in particolare con disturbi dello spettro autistico, e giovani normotipici. “Si tratta di un campo estivo aperto a tutti i bambini con l’obiettivo di sviluppare la socializzazione e l’autonomia attraverso un’esperienza condivisa”, spiegano gli organizzatori. “La terapia dovrebbe avvenire in contesti quanto più possibili naturali- conclude Di Renzo- il contesto del Summer Camp è veramente terapeutico perché la vera cognizione si ha quando il bambino, vedendo gli altri, vuole fare anche lui, quindi prova e si mette in gioco”.
22/06/2020