“Cercare di comprendere le dimensioni personologiche, assolutamente in evoluzione ed emergenti nel bambino, nell’adolescente ma soprattutto nel preadolescente, per l’individuazione precoce di quei segni che possono farci pensare a una possibile evoluzione verso il ritiro sociale”. Davide Trapolino, neuropsichiatra infantile dell’Istituto di Ortofonologia (IdO), mette l’accento sulle forme di ritiro basate sui tratti di personalità, uno degli aspetti allo studio del gruppo di ricerca in Psicopatologia all’interno del progetto ‘Ritirati ma non troppo’ dell’IdO, ripartito l’11 settembre con i gruppi di sostegno alle famiglie.
“Nel nostro lavoro poniamo attenzione alla popolazione pediatrica- afferma Trapolino- abbiamo una prospettiva evolutiva e quindi cerchiamo di ricostruire, anche a posteriori, la traiettoria che ha condotto il paziente a quella condizione di ritiro. Anche se ancora oggi non c’è grande consenso sul fatto che si possa parlare di personalità in un preadolescente, credo che in qualche modo si possa parlare di tratti emergenti. Ad oggi sembra che le caratteristiche personologiche dei soggetti che poi esitano nelle condizioni di ritiro siano molto peculiari”. Il neuropsichiatra evidenzia, poi, che nei racconti delle persone in ritiro emerge “un sentimento di estraneità e di esclusione che rimanda a stadi molto precoci della loro esistenza”. Un malessere che “mina alla base il senso di intimità, la possibilità di entrare in intimità con qualcuno, con qualcosa e pure con sé stessi, azzerando la piacevolezza dello stare insieme agli altri”. Tutti aspetti che, a detta degli studi, “sembrano essere alla base della genesi di quegli stati mentali di non condivisione e di non appartenenza. Quindi- precisa Trapolino- di un sentimento di alienazione che non può che sedimentarsi alla base di una personalità in formazione”. Ciò accade in quanto l’aspetto del non appartenere, del non condividere è “una delle caratteristiche che determinano in queste persone un certo modo di stare al mondo”.
Trapolino sottolinea la necessità di “valutare attentamente il potere patogenetico e il circolo ricorsivo dentro cui il ritiro sociale può inserire un soggetto. Noi siamo animali sociali- dice- il nostro sé è sostanzialmente in relazione agli altri, il sé esiste con gli altri, quindi la deprivazione sociale in realtà non fa altro che diventare un fattore di rischio per il successivo instaurarsi di una psicopatologia”.
Basti pensare agli episodi di vittimizzazione o al cyberbullismo. “Spesso i soggetti più ritirati sono quelli più esposti a episodi di vittimizzazione. Ma la vittimizzazione aumenta le condotte di evitamento- spiega il neuropsichiatra- aumenta la presenza di sintomi internalizzanti come ansia e depressione, che a loro volta sostengono il ritiro”. Quindi “si deve osservare il ritiro non soltanto come l’esito di meccanismi psicopatologici che lo generano, ma spesso come movimento patogenetico precoce che poi sostiene tutta una deriva- aggiunge- Le derive comportamentali, emotive e cognitive di questi soggetti forse potrebbero essere differenti e seguire traiettorie diverse a seconda proprio del substrato di personalità. La fragilità dell’immagine di sé e la difficoltà di entrare in relazione con gli altri rimandano anche a una dimensione relazionale primaria. E allora se questo è vero, l’attenzione agli aspetti personologici diventa cruciale”, sostiene l’esperto.
Da qui l’attenzione va anche al tema dell’attaccamento. “Mi trovo d’accordo- dice Trapolino- con gli studi che sottolineano come un attaccamento insicuro, nelle sue differenti forme, si possa ritrovare alla base di condizioni patologiche, che dall’ansia sociale vanno fino al disturbo evitante di personalità. Possono sostanzialmente essere quei fattori precoci che determinano una certa propensione nell’ambito interpersonale e nell’immagine di sé. Sappiamo che sulla popolazione hikikomori- precisa il neuropsichiatra- turbe dell’attaccamento si ritrovano spesso perché abbiamo frequentemente dei sistemi familiari che in qualche parte sono infragiliti”.
Aperta resta poi la domanda se per gli hikikomori si possa parlare di vera e propria psicopatologia. “Non vi è un inquadramento diagnostico specifico o meglio non è stata identificata un’identità nosografica come ritiro sociale- spiega Trapolino– Il ritiro lo si ritrova trasversalmente in differenti disturbi di carattere psichiatrico e fino a oggi va interpretato come un sintomo, come una dimensione. Ma guai- precisa il neuropsichiatra- a semplificarne il possibile significato, perché lo stesso sintomo può avere caratteristiche e motivazioni diverse”. Esempi sono l’ansia sociale, la depressione, la schizofrenia. “Anche nei disturbi dello spettro autistico è frequente che si concretizzi un po’ di ritiro sociale- ricorda Trapolino- le motivazioni possono essere però anche lì differenti e non sono spesso da attribuire a un volere specifico da parte del paziente, quanto all’esito disadattivo di competenze comunicative menomate, di una vita difficile, di un adattamento spesso impossibile”.
Ma allora cos’è il ritiro? “Parliamo di un fenomeno che nelle sue varie forme contribuisce al venir meno delle interazioni sociali- spiega ancora Trapolino- Guai a banalizzarlo perché in realtà è un costrutto complesso ed eterogeneo che può esprimersi in diversi gradi e diverse forme, con intensità e qualità differenti, configurando condizioni che vanno da un basso grado di patologia a situazioni più gravi. Quindi, benché il ritiro possa concretizzarsi nella sua forma di reclusione o di disinvestimento dall’aspetto sociale, le determinanti che lo compongono possono essere diverse da soggetto a soggetto. Molti studiosi convergono sul fatto che il ritiro possa essere anche concettualizzato come la risultante di componenti psicopatologiche differenti. Pensiamo al fenomeno dell’hikikomori- precisa il clinico- che è una forma di ritiro estrema, un vero e proprio ritiro dal mondo non soltanto dalla società. Esistono delle forme differenti che si esprimono con una clinica differente e che verosimilmente le motivazioni alla base delle quali sono diversificate”.
Quando il ritiro può essere definito deviante? “Ci sono degli aspetti quantitativi da valutare come le ore che la persona trascorre chiusa in casa, la quantità di occasioni sociali perdute, oppure la quantità di ore spese davanti alla tecnologia. E poi ci sono degli aspetti qualitativi, ciò che sostanzia il ritiro, che tipo di stati della mente e pensieri vi sono dietro- spiega Trapolino- La letteratura converge nel sostenere che il periodo che va dalla seconda alla tarda infanzia diventa quello più critico. Quando è presente un ritiro in quella fascia di età può essere considerato deviante, inteso come rischioso ovviamente. Lo è meno in altre fasi della vita o in alcune transizioni dell’adolescenza, in cui si sa che il soggetto ha bisogno di ritornare a sé stesso per compattarsi di fronte alle sfide evolutive che si trovano davanti a lui. Quindi- chiarisce il neuropsichiatra- non è sufficiente che ci sia il ritiro perché si concretizzi una condizione di rischio, c’è chi da solo riesce a star bene e c’è chi in compagnia soffre. Bisogna fare la lettura del ritiro all’interno del momento evolutivo della persona”. Per questo anche l’approccio dei terapeuti “deve essere il più flessibile possibile. Non basta che sia presente la condizione di ritiro, questa va letta in una concatenazione di sintomi”, conclude Trapolino.
Il progetto ‘Ritirati ma non troppo’ dell’IdO prevede gruppi di ricerca sul fenomeno composti da 6 specialisti ognuno. I temi di indagine, oltre alla psicopatologia, abbracciano tutta la condizione di isolamento sociale: i miti; il ruolo genitoriale; e infine il trauma. Per avere informazioni su come partecipare e’ possibile scrivere alla mail pmldoria@gmail.com