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Cultura. Divina Commedia, Widmann (Icsat): E’ un percorso di individuazione

Lo psicologo: Per Dante come Jung significa essere pienamente se stessi

L’aldilà esplorato da Dante, strutturato in tre parti, ricalca “simbolicamente le tre segmentazioni della vita psichica”. Il percorso fatto dal Sommo poeta dall’Inferno al Paradiso, passando per il Purgatorio, è dunque un percorso “anagogico, di trasformazione ed elevazione personale, verso l’individuazione del sé”. A spiegare l’impronta psicologica di questa lettura simbolica della Divina Commedia è Claudio Widmann, analista junghiano, autore del volume di prossima pubblicazione ‘La Commedia di Dante come percorso di vita’ e coordinatore scientifico del convegno intitolato ‘Dante e Jung: una relazione a distanza’. L’evento promosso dall’Icsat (Italian Committee for the Study of Autogenic Therapy and Autogenic Training) è in programma il 26 e 27 febbraio 2021 presso il Palacongressi di Ravenna.

Analizzando le tre segmentazioni della vita psichica e sovrapponendole ai tre mondi visitati da Dante, spiega Widmann, si nota come “l’Inferno corrisponde in maniera molto interessante al regno dell’inconscio, di cui l’autore descrive le molte sfaccettature. Ritroviamo l’inconscio che è tale- ricorda l’analista junghiano- perché non si è ancora differenziato dalla coscienza. Ritroviamo l’inconscio che allaga la coscienza e si impossessa dell’Io. Sono stati di possessione per Dante e stati di compulsione per la Psicologia. Quelli in occasione dei quali pur sapendo di non voler fare una cosa, la facciamo egualmente perché qualcosa di più forte di noi si muove a farla. Ritroviamo, infine, quegli aspetti terribili dove l’inconscio trova un modo per allearsi con la coscienza e quest’ultima non è più quell’entità interiore che argina l’inconscio, ma ne diventa un terribile e nefasto alleato”.

Salendo dall’Inferno, Dante incontra e sperimenta il Purgatorio che “è la grande erezione, l’edificazione dell’Io”. È il luogo, sottolinea il coordinatore scientifico del convegno, “dove l’Io scopre la fatica, impara a confrontarsi con l’ombra, sperimenta la propria forza. ‘Stai come torre ferma che non crolla mai la cima per il soffiare dei venti’, dice Dante, ed è proprio un’immagine dell’Io che non è una banderuola che si sposta ad ogni soffiare dei venti, ma è il soggetto della continuità”.

Infine, il Sommo poeta arriva in Paradiso, che è “il grande, sterminato regno dell’inconscio, del Sé, in cui l’inconscio non è più il nemico della coscienza ma ne è il completamento. Dove l’inconscio non è quello che si impossessa della coscienza e la inibisce, ma è quello che espande, che dilata la coscienza. È il regno dell’integrazione, dell’espansione, del superamento di se stessi”. Il Paradiso che termina con il centesimo canto, a cui è dedicata la relazione con la quale Widmann chiuderà il convegno, un canto che “è la descrizione poetica del concetto del sé, che è prima di tutto- chiarisce l’analista- un luogo di antinomia, di contraddizioni. Il canto comincia, come molti di noi ricordano, con una sorta di invocazione che è un concentrato di contraddizioni: ‘vergine madre, figlia del tuo figlio’. Questa, in una lettura simbolica, non è soltanto una descrizione di tipo religioso, ma è la descrizione dell’assetto psichico delle antinomie, di quegli aspetti inconciliabili di cui siamo impastati tutti. E il canto procede- aggiunge Widmann- con la difficoltà di tenere insieme queste cose. Dante lo dice bene scrivendo ‘mi ritrovai come quel geometra che cerca la quadratura del cerchio’, che cerca quel principio che gli manca e gli mancherà sempre”. Un principio che manca a tutti gli esseri umani, sottolinea l’esperto, “perché tutti noi non sappiamo come fare a essere contemporaneamente buoni e cattivi, onesti e disonesti, eppure se siamo onesti con noi stessi dobbiamo dire che siamo entrambe le cose. Ma siccome siamo disonesti, non ce lo diciamo mai”.

Soprattutto in quest’ultimo canto, tiene a sottolineare Widmann, “si può cogliere bene come quello che Dante cerca, e in questo è fedelissimo a Jung sei secoli prima, non è il principio di individuazione inteso come l’essere massimamente se stesso. Se individuazione significasse essere massimamente se stessi,  allora, come dice il grande relatore del nostro convegno Murray Stein, dovremmo concludere che Hitler è stato massimamente individuato, perché è stato il distruttore perfetto. Ma Dante- prosegue il coordinatore scientifico- come Jung, ci dice una cosa: individuazione non è diventare massimamente se stessi, è diventare pienamente se stessi, essere noi con tutta la nostra complessità e con tutte le contraddizioni”.

Secondo Widmann, “Hitler era consapevole di voler sterminare gli ebrei e se noi diciamo che Hitler ha realizzato veramente, al massimo grado in cui è riuscito, la sua indole di sterminatore, ammesso che questa fosse davvero la sua indole (abbiamo sempre il limite di non averlo conosciuto di persona), allora Hitler dovremmo ritenerlo una persona individuata”. Per l’analista junghiano “il punto è che se davvero Hitler, come ciascun individuo, è una complessità psichica, nel momento in cui si realizza totalmente come sterminatore, rimane totalmente inespressa la sua potenzialità di solidarietà, di comprensione, di compatimento. I gerarchi nazisti che- ricorda- ordinano lo sterminio di migliaia di persone e piangono per la morte di due canarini, hanno totalmente dissociato la capacità di commozione; hanno sviluppato in maniera unilaterale la loro componente distruttiva e non hanno realizzato in nulla la loro parte costruttiva, mancando di attualizzare la totalità psichica del Sé”.