di Rosa Rita Ingrassia – psicologa, analista junghiana, CIPA (Centro Italiano di Psicologia Analitica)
Articolo pubblicato sul numero monografico di Babele dedicato al Covid-19
È un tempo senza tempo quello che stiamo vivendo; tempo di sospensione, di attesa, di progetti amputati, di instabilità dichiarata. Il 9 di marzo molti di noi si sono congedati dai propri pazienti, piccoli e grandi, con gli appuntamenti fissati sull’agenda per la settimana successiva. Non sapevamo che alcuni di loro non li avremmo rivisti per chissà quanto tempo. Alle 21.30 di quello stesso giorno è stata decretata la quarantena e con essa l’inizio delle danze, dei karaoke ai balconi, delle esultazioni degli studenti per la sospensione delle lezioni.
E ancora non capivamo…
Didattica a distanza, smart working, mascherina, guanti, spesa on line, libri, musica e l’ansia di recuperare quello che la pandemia ci aveva tolto.
E ancora non capivamo…
Le cifre dei contagi e dei morti si alzavano, i medici invitavano alla precauzione, ma abbiamo dovuto assistere alla lunga fila dei camion dell’esercito che trasportavano i morti dell’ospedale di Bergamo per risvegliarci alla tragica realtà.
Nel silenzio assordante di una città, che piangeva i propri cari fra le mura domestiche, abbiamo realizzato che non era più il tempo dei festival improvvisati. Il saluto militare del carabiniere in lacrime – alla debita distanza di un metro dagli altri – penso rimarrà nella memoria collettiva, come lo studente che allargò le braccia di fronte ai carri armati nella Piazza a Tienanmen; gesti autentici, inconsapevoli, improvvisi che trasformano la cronaca in storia, imprimendo una traccia indelebile. Cosa ne sarà di noi dopo questa esperienza è la domanda che più di ogni altra circola nel network e mi sembra che ancora una volta stiamo spostando lo sguardo in avanti, rifuggendo, come spesso facciamo, da cosa sta accadendo adesso dentro ognuno di noi. Mai come in questo momento storico la psicologia del profondo e la filosofia, di cui ne porta le radici, possono aiutarci a disvelare le ombre e le luci degli antri più profondi del nostro essere.
È innegabile che da quando l’Umanità è costretta a vivere come topi rintanati, la Natura sia rinata nella sua magnificenza; ridotto il buco dell’ozono, cristalline le acque dei canali veneziani, ricomposta in massima parte la barriera corallina, ripopolati i mari.
Come dire che l’uomo, piuttosto che porsi come agente di cura del proprio ambiente, inteso anche nell’accezione di D. Winnicott, ne è il distruttore. Eppure, noi europei, e soprattutto la fascia mediterranea, siamo radicati nella cultura dell’Anima Mundi e anche il mondo orientale non rinnega la congiunzione fra individuo e Universo. Ma questo non ha risparmiato la scissione fra l’Io e l’Altro; la goliardia ci ha preso la mano, la civiltà è naufragata miserevolmente nell’annacquamento egocentrico; abbiamo oscurato l’archetipo dell’Anthropos da cui nascono – per dirla con le parole di R. Mercurio – «secondo i miti, le stelle e i pianeti, i fiumi e gli oceani, le piante e i minerali, e naturalmente gli esseri umani. […] Si tratta dell’archetipo della nostra comune, condivisa umanità, delle nostre comuni e condivise radici, del nostro comune destino e delle nostre comuni e condivise responsabilità» (2017, p. 352).
Responsabilità, dal verbo latino respondeo – derivante a sua volta da spondeo, l’atto solenne del promettere e del garantire – invita a riflettere verso chi e verso cosa dobbiamo rispondere? Verso noi stessi, innanzitutto, alla conoscenza di sé per rispondere al nostro cammino, alla vita che ci è stata donata.
Rispondere a chi abbiamo l’opportunità di incontrare lungo questa strada, con rispetto, riconoscimento, generosità. Pandemia e quarantena potrebbero essere l’opportunità negata a quella centroversione che popola di immagini il nostro mondo interiore, di parole mai cercate, di pensieri mai sopiti. Potrebbero essere l’occasione per guardare all’impermanenza esistenziale; là dove il nostro ego esige certezze, stabilità, onnipotenza, un piccolo, invisibile e sconosciuto virus ha ribaltato il tutto beffandosi dei grandi progressi dell’uomo.
Ritornare all’essenziale, a ciò che è necessario, sembra essere l’imperativo del Covid-19. L’essenziale è anche l’essenza e questa è substantia ontologica che si cela nel mistero, nel divino, nella sacralità dell’Uni-verso poiché siamo Uno indivisibile e inscindibile.
Paradossalmente, questa esperienza cosmica viaggia su binari paralleli; difatti, per quanto ci siamo protetti dalla contaminazione virale, mai come in questo momento la paura di morire, il dolore, la reclusione, la pan-demia – nell’accezione anche dell’irruzione di Pan che tutto sconvolge e scompagina – ci ha reso vicini, ha abbattuto le frontiere della diversità, poiché nell’humus della nostra Madre Terra, così come nella volta celeste che ci sovrasta e nelle acque che ci albergano, brilla il fuoco sacro dell’esistenza, radicata, forte, dentro e fuori di noi, sempre. Gli esseri umani si sono ritrovati nell’area della caducità, della sofferenza del loro simile, nel volto privo di maschere; spogliati di ogni imbellettamento abbiamo riconosciuto le nostre fragilità e in nome di ciò ci siamo abbracciati. Ancora una volta nella nudità ci si riconosce simili, uguali, compatibili, risonanti. Che tutto ciò non diventi oblio; che il dopo possa essere una ri-costruzione evolutiva. «La nostra sola speranza» – come afferma Jung – «è ritornare a una condizione in cui si possa essere nel giusto rapporto con la natura».
Bibliografia
Jung C.G. (1934-1954), «Gli Archetipi e l’Inconscio Collettivo», in Opere, vol. IX/1, Torino, Bollati Boringhieri, 1989.
Mercurio R., «L’archetipo dell’Anthropos», in C. Widmann (a cura di), Archetipi, Roma, Edizioni Magi, 2017.
Winnicott D.W. (1971), Gioco e realtà, Roma, Armando, 2001.