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Coincidentia oppositorum ai tempi del Covid-19

di Marco Carpineto - psicologo, psicoterapeuta, IdO - Avellino

Articolo pubblicato sul numero monografico di Babele dedicato al Covid-19

Forse non ce la farai, a fuggire dal tempo, nemmeno arrivando ai confini del mondo. Ma anche se il tuo sforzo è destinato a fallire, devi spingerti fin laggiú. Perché ci sono cose che non si possono fare senza arrivare ai confini del mondo

Anno 2020. Pandemia Covid-19 in corso. Andrà tutto bene! È anonimo l’autore di questa iniziativa. In principio sono post-it, attaccati qua e là, poi diventano slogan, dipinti, disegni, striscioni sui balconi, musica. Andrà tutto bene! Una speranza, certamente, e come tale non va castrata, anzi andrebbe valorizzata. Jung ce lo insegna: «L’inconscio collettivo è un dato di realtà delle vicende umane: occorrerebbero volumi interi per spiegarne le ramificazioni. Noi tutti ne siamo parte: da un lato, l’inconscio collettivo rappresenta la saggezza umana accumulatasi nei millenni, che noi tutti inconsciamente ereditiamo, sotto altri aspetti comprende le emozioni umane fondamentali, che tutti abbiamo in comune». Tuttavia il punto fondamentale della psicologia junghiana è sempre stato quello di non distruggere l’immediatezza della nostra vita psichica, ma di continuare a interrogarsi, sottolineando la necessità di non trincerarsi soltanto dietro «facili», se pur necessarie, argomentazioni per mettere a tacere la coscienza, che se da un lato è funzionale a rimuovere parte dell’orrore, dall’altro è inefficace a promuovere istanze riparative e a stimolare una rinnovata pensabilità, finendo per scadere in futili argomentazioni. Jung ha sempre esortato al confronto con le istanze più profonde dell’individuo e l’elemento creativo ha sempre svolto un ruolo cruciale nelle dinamiche e nella storia della psiche. E sono proprio i momenti come questi, difficili e imprevedibili, quelli in cui tutti siamo chiamati a tirare fuori il meglio di noi stessi. Le nostre abitudini sono state stravolte, qualcosa è cambiato, e si comincia a guardare se stessi e quello che ci sta intorno con attenzione, promettendosi di cominciare a stringere forte al petto ciò che viene ritenuto, ancora una volta, importante. Ma ancor prima dei colori e dei suoni, che hanno calamitato la nostra attenzione e il nostro sguardo e che ci rassicurano o che ci distraggono, stiamo tutti facendo i conti con la paura, l’angoscia, la rabbia, l’impotenza, l’abbandono e l’odore di morte, che tutt’ora albergano in ognuno di noi.   Come afferma M. Di Renzo: «Mi sento profondamente debitrice allo spirito junghiano che ci fa trovare, quando altro non c’è, almeno il coraggio di avere paura e di partire da lì per trovare nuove immagini che forse potranno un giorno portare a un nuovo filo narrativo». 

E così, sotto i nostri occhi, sta accadendo un fatto straordinario. Per la prima volta dal punto di vista psicologico possiamo pensare al Genere Umano come un soggetto unico, perché forse, per la prima volta, tutti gli esseri umani stanno sperimentando contemporaneamente le stesse sensazioni, le stesse emozioni, gli stessi vissuti, e per giunta per gli stessi e identici motivi.  Ne scaturisce l’effetto di una profonda dinamica archetipica che si rende visibile nei processi dell’inconscio e tra inconscio e coscienza. Un effetto che si manifesta in emozioni negative e positive, in suggestioni e proiezioni, ma anche in angoscia e, soprattutto, senso d’impotenza, indipendentemente dal fatto che tale effetto si accettato o rifiutato dalla coscienza umana, che esso rimanga inconscio o che coinvolga la coscienza. Ma ciò che rende questo momento ancora più straordinario è il fatto che, nonostante la drammaticità della situazione e nonostante queste emozioni siano esattamente quelle che siamo soliti a evitare e rimuovere, ciò che si sta costellando è probabilmente un materiale psichico prezioso che ci sta fornendo un’occasione unica di rinascita, di crescita e di rinnovamento della psiche. D’altronde l’idea di ritrovare il vero senso della vita è tutt’ora la vocazione di molti. Questi vissuti mostruosi e spaventanti, in realtà sembrano celare un enorme potere trasformativo e individuativo molto importante. E se così fosse, in che modo questo potrebbe realizzarsi? E come potremmo rendercene conto?

E sono proprio i momenti come questi, difficili e imprevedibili, quelli in cui tutti siamo chiamati a tirare fuori il meglio di noi stessi

La profondità di una tematica così vasta e complessa può essere colta soltanto facendo riferimento alla teoria degli archetipi e provando a interagire con quelle che possono essere considerate le sue rappresentazioni. Tuttavia, si sa che l’esperienza dell’analisi ha dato prova che in realtà nella psiche sono attive forze anti-archetipiche, che svincolano palesemente l’individuo dall’ordito degli archetipi, con risultati non sempre incoraggianti. Poco importa perché l’archetipo riesce a contenere questo vuoto, in quanto impronta del tutto. Nelle fasi calde di questa pandemia la confluenza di manifestazioni contraddittorie (da un lato l’amplificazione cosciente dell’«andrà tutto bene» e dall’altro la rimozione inconsapevole della «paura di morire») ci fa pensare all’archetipo primordiale, la Grande Madre, che fonde al suo interno attributi positivi e negativi, e la cui azione e la cui manifestazione sono tanto più possenti quanto maggiore è la connessione degli opposti all’interno di esso. Ma tutto ciò è possibile se appartiene a una coscienza e a un Io incapaci di distinguere. Così come accade nel neonato, per esempio. Allora proviamo a pensare come se l’umanità fosse un unico soggetto. E ripensiamo a quella ipotetica possibilità di rinascita, alla coincidentia oppositorum che caratterizza la situazione di un inconscio controbilanciato dalla coscienza, alla confluenza di bene e male, speranza e paura, vita e morte. 

E se così fosse, quindi, possiamo ipotizzare che la stessa Umanità si stia trovando di fronte a una nuova fase preistorica della coscienza? Come se fosse un neonato? Quindi, un possibile anno zero per l’umanità. Tutti accomunati da uno stesso destino. Insomma, proviamo a immaginare ciò che accade dopo la nascita di ognuno di noi. Me lo sono sempre chiesto. Pensiamo un attimo cosa accade o potrebbe accadere nella psiche del neonato man mano che cresce.  Quando ognuno di noi viene al mondo è completamente inconsapevole, ma non vuoto e all’inizio del suo sviluppo l’Io è esposto a subire il peso delle situazioni di angoscia più precoci, perché la paura, la morte e l’angoscia stessa sono insiti nella psiche primordiale. E al neonato, in tutte le sue manifestazioni e comportamenti, non rimane che cercare di superare le proprie esperienze sgradevoli, agendo la paura e la rabbia senza troppe macchinazioni razionali. D’altronde la paura non permette al neonato di salvargli la vita, attirando a sé contenimento e protezione, per esempio proprio come quando l’animale prova paura e il suo corpo reagisce al sentimento cercando il momento, l’occasione e il luogo più idoneo per fuggire? E inoltre la rabbia, oltre a far evitare pericoli, non favorisce il distacco dall’altro da sé e il processo di differenziazione? Ma al tempo stesso questa profonda inconsapevolezza gli consente di non guardare che nel suo «zainetto», oltre alla vita, c’è anche la morte, e che in realtà la porta dietro con sé? 

Un ulteriore grosso ausilio in questo senso viene offerto anche dagli adulti di riferimento, in particolare dal materno e dalla funzione naturale che è in una madre, e che Winnicott definisce come preoccupazione materna primaria. In una sola parola il neonato finisce pian piano con l’essere dispensato dal preoccuparsi di argomenti così oscuri e spaventosi, perché gli adulti da subito cominciano a preoccuparsi dell’incolumità dei neonati/bambini e automaticamente, come se fosse necessario, il neonato se ne allontana, finendo per costellare un generale spostamento di sentimenti negativi di origine endopsichica sul mondo esterno. È come se l’umanità, sperimentando la paradossale contemporaneità di bene e male, pian piano finisca per venerare come diverse l’una dall’altra la dea buona (suoni e colori) e quella cattiva (virus e morte). In altre parole si comincia a «vitalizzare», conoscere il mondo esterno, progettare, fare esperienza e quindi la vita è possibile se ci si allontana dall’idea di morte. Ma si potrebbe anche ridefinire il tutto in altro modo, cioè che la presenza della morte spinge verso la ricerca della vita, permettendo al bambino/umanità di godersi le illusioni determinate dal suo senso di onnipotenza. Ma non dimentichiamo che il compito della madre è anche quello di disilludere suo figlio; una volta che l’onnipotenza è stata sperimentata è necessario apprendere che il mondo esterno non sempre è sotto il suo potere. È una condizione indispensabile per individuarsi. Se tutto questo vale per il neonato forse è valido anche per l’intera umanità in questo momento storico e si rivela assolutamente necessario recuperare quel sentimento di impotenza, ciò che l’umanità ha sempre tollerato segretamente e con un leggero senso di vergogna. 

Oggi come non mai sarebbe opportuno non farsi spaventare da una sensazione così profondamente naturale che circoscrive la limitatezza dell’umanità, che ci offre la possibilità di accettare l’esistenza della morte e che ci permette di guardare per davvero alla vita, ma con consapevolezza, senza avere il bisogno di trovare strategie di evitamento o illusioni di onnipotenza. Perché finiremmo per accontentarci soltanto della sensazione di guardare alla vita ma che in realtà, forse, siamo vicini alla morte più di quanto non lo pensiamo. E, infine, nell’infante come nell’umanità, tutto questo fermento psichico e archetipico non è favorito dall’intimità della tanto odiata solitudine? E se così fosse non potremmo pensare alla solitudine come a un vitale spazio di confine o a un ponte, certamente indefinito, che mette in relazione gli archetipi con le rappresentazioni degli stessi, uno spazio da abitare per poter cogliere il senso più profondo del quotidiano e di tutto il mondo visibile? Quarantena ai tempi del Covid-19, isolamento insomma. Andrà tutto bene.