Il ritiro sociale volontario è una forma di disagio giovanile conosciuta con il termine giapponese “hikikomori”. Il fenomeno, che è nato nello stato nipponico, risulta ancora poco conosciuto in Italia, nonostante si contino almeno 100mila casi nel Belpaese. “Si tratta di un dato fittizio- chiarisce subito Pamela D’Oria, psicologa clinica e specializzanda della Scuola di Psicoterapia psicodinamica dell’età evolutiva dell’Istituto di Ortofonologia (IdO) e della fondazione MITE- sia perché mancano ricerche in letteratura, sia in quanto confluiscono in questa stima anche i neet (coloro che non studiano né lavorano) e chi resta a vivere in famiglia”.
La Pandemia riaccende adesso l’attenzione sugli hikikomori poiché accresce il rischio che un maggior numero di adolescenti e giovani adulti non voglia più uscire di casa. Come aiutare allora questi ragazzi (la cui età di insorgenza del disagio è sempre più precoce) e le loro famiglie? “Esistono sul territorio nazionale delle istituzioni che si occupano del ritiro sociale, come l’Istituto Minotauro a Milano o il Policlinico Gemelli di Roma, ma non esistono ad oggi delle linee guida ufficiali su come poter aiutare efficacemente il ritirato sociale e la sua famiglia”, spiega ancora D’Oria. Da qui nasce ‘Ritirati, ma non troppo. Un aiuto per le famiglie’, il nuovo progetto clinico e di ricerca sul fenomeno del ritiro sociale promosso da Magda di Renzo, responsabile del servizio Terapie dell’IdO.
“Questa iniziativa mette insieme un gruppo di psicologi/ psicoterapeuti, neuropsichiatri infantili e pediatri che, partendo da una visione comune- prosegue D’Oria- stanno studiando e approfondendo il ritiro sociale adolescenziale e giovanile nell’ottica della complessità. La ricerca teorica si affianca a un progetto terapeutico rivolto ai genitori con figli ritirati sociali”.
In sostanza ‘Ritirati ma non troppo’ prevede un percorso di 6 incontri (i primi 4 a cadenza settimanale e gli ultimi due a cadenza quindicinale) con due gruppi di 5 famiglie di ragazzi hikikomori ciascuno, a partire da venerdì 3 luglio alle ore 15 . Ogni gruppo durerà circa un’ora e 30 minuti e sarà gratuito per i partecipanti. I prossimi incontri sono previsti il 10, 17 e 24 luglio. Due incontri con cadenza quindicinale si svolgeranno a settembre in date ancora da stabilire. La modalità è online su Skype e per informazioni sulle modalità di partecipazione basta scrivere a pmldoria@gmail.com. L’offerta dei gruppi crescerà via via che arriveranno le richieste di adesione da parte delle famiglie.
In quanto già volontaria di ‘Hikikomori Italia’ in Puglia, D’Oria ricorda che “l’associazione fondata da Marco Crepaldi ha avuto il merito di diffondere sul territorio nazionale la conoscenza del fenomeno e di creare dei gruppi di auto-mutuo aiuto per le famiglie, in cui gli psicologi hanno il ruolo di conduttori, ma non si parla di veri e propri gruppi terapeutici. Dalla mia esperienza come conduttrice di questi gruppi di auto-mutuo aiuto mi rendo conto che, dopo una prima fase di confronto e supporto tra i membri del gruppo, si crea uno stallo: viene a mancare quella funzione terapeutica che può far crescere realmente il gruppo. Inoltre, i genitori chiedono al professionista un aiuto concreto che, laddove possibile, preveda anche un cambiamento del setting classico per abbracciare l’home visiting quale possibilità alternativa che permetta di agganciare il ragazzo ritirato”.
La scuola ha un ruolo fondamentale per riconoscere i giovani prima del drop-out. “Ci sono fattori prodromici al ritiro- chiosa D’Oria- il ritirato è tendenzialmente un soggetto timido, con una mente brillante ma che non partecipa alle attività scolastiche. Sono persone molto sensibili, ma anche molto difficili dal punto di vista relazionale. Intervenire prima può evitare le difficoltà legate a un ritiro prolungato”. Le famiglie italiane dove sono presenti figli ritirati socialmente, “nella maggior parte dei casi sono separate e poi ricomposte, oppure sono famiglie mononucleari in cui la mamma si occupa di tutto e il papà, anche se c’è, tende ad essere assente. Infine- conclude la psicologa clinica- il tipo di attaccamento dei figli con i caregiver è insicuro ambivalente o evitante. Loro evitano le relazioni sociali per non soffrire”.
16/06/2020