IdO in diretta facebook con la testimonianza di una mamma.
Dall’11 maggio riattivato servizio in presenza
Il lockdown è stato, quindi, “anche un’opportunità per reinventarmi assieme a mio figli – racconta Onza, nella diretta facebook IdO dal titolo ‘Creatività ed empatia. Parole chiave del modello Tartaruga’ – che ha oggettive difficoltà di crescita e relazione. Insieme al papà siamo riusciti a insegnargli che in questo momento si può fare anche qualcosa di bello insieme”. La famiglia di Alessandro ha scelto una comunicazione “semplice ma efficace, senza spaventarlo. Gli abbiamo insegnato l’idea della mascherina, il metro è diventato un oggetto che usiamo molto di più”, e pian piano il nucleo familiare si è adattato “per capire insieme come ‘sconfiggere il Coronavirus’, dice così Alessandro”.
Anche la presenza costante dell’IdO ha giocato il suo ruolo nel percorso evolutivo di questo bambino: “Gli ha dato la possibilità di avere una continuità anche nelle relazioni via Skype. Anzi”, gli esperti dell’IdO “sono gli unici con cui rimane connesso senza scappare, magari perché si emoziona troppo, come accade – racconta Onza – quando provo a fargli chiamare i nonni. Alessandro è molto emotivo, ma l’IdO gli ha dato la possibilità di avere comunque i suoi appuntamenti settimanali. Un pizzico di normalità che aiuta l’intera famiglia”.
Il bisogno di Alessandro è stato accolto dall’Istituto, che a partire da lunedì 11 maggio ha riattivato il servizio in presenza nel rispetto di tutte le norme di sicurezza sanitaria. Lunedì “è stato commovente – commenta Magda Di Renzo, psicoterapeuta dell’età evolutiva e responsabile delle terapie dell’IdO – ogni bambino, difatti, nei vari modi e a seconda delle sue possibilità di comunicazione aveva espresso il desiderio di tornare”.
La necessità del ‘lavorare insieme’ è sempre stata al centro dell’impegno dell’IdO, ancor prima della Fase 2. Tanto che l’Istituto si era mosso con “un gran lavoro di sostegno alle famiglie per preparare i bambini a tutte le procedure che avremo dovuto rispettare”. Dal vedere l’altro con la mascherina fino all’indossarla, i bambini “sono riusciti a prendere tutto nella dimensione del gioco”. Così “lavarsi le mani, disinfettare le scarpe o abituarsi al terapista con la mascherina” sono diventate vere e proprie attività ludiche, “anche grazie all’aiuto dei genitori”, continua Di Renzo. Ad esempio, le fa eco Elena Vanadia, neuropsichiatra infantile dell’IdO, “abbiamo attaccato degli adesivi sui tavoli per indicare il metro di distanza. Ognuno ha trovato il linguaggio più comprensibile, soprattutto per i bambini”.
Con i ragazzi che sono dentro lo spettro autistico “si gioca per arrivare allo stesso fine – ricorda ancora la mamma Anna – ma bisogna arrivarci attraverso un percorso diverso. Banalmente, in questi giorni cambiare un po’ l’ordine delle cose ha aiutato anche me a trovare assieme a lui nuovi modi di giocare differenti. Ho scoperto delle sue passioni che non avevo colto fino in fondo: come la luna e le comete”. Quando Anna ha portato fuori Alessandro per la prima volta, con tanto di mascherina, lui le ha detto “Mamma ho rivisto il mondo”, ecco perché “noi mamme dell’IdO non vedevamo l’ora che i nostri bambini tornassero nelle sale dell’Istituto, perché lì si divertono tantissimo” e scoprono un po’ di mondo.
Le parole chiave del lavoro dell’IdO sono quindi “creatività, empatia e fiducia”. La creatività “può nascere veramente soltanto quando si ha una conoscenza profonda di una situazione – spiega Di Renzo – perché implica la capacità di mettere le cose in un ordine nuovo”. A un raggiungimento di questo tipo si può arrivare, a detta dell’esperta, “soltanto con una sintonizzazione, un affetto e un tentativo di capire il bambino al di là di quello che riesce ad esprimere, e questo è quello che le mamme sanno fare in maniera straordinaria”, continua Di Renzo. Dell’empatia, invece, ne parla la neuropsichiatra IdO: “Se è vero, da una parte, che negli individui aventi disturbi dello spettro autistico è più compromessa l’empatia cognitiva – tanto che fino a poco fa pensavamo che provassero meno emozioni, ma non è così – Dall’altro lato sappiamo che l’empatia cognitiva viene correlata al comprendere lo stato mentale dell’altro, le intenzioni e il riuscire a decodificare”. Per questa ragione, secondo Vanadia, “abbiamo l’obbligo di lavorare sull’empatia affettiva, anche se potrebbe essere la parte più vulnerabile, perché è quella che ci aiuta a migliorare il funzionamento socio-adattivo – ricorda la neuropsichiatra – che sappiamo essere l’altro elemento compromesso nel disturbo”. Infine, c’è la fiducia verso i terapisti, le famiglie e gli stessi bambini. Sempre ricordando, però, che “per affidarsi ci vuole tempo, perché la fretta in pedagogia non è mai stata vincente –
conclude Di Renzo – Ma soprattutto ci vuole coraggio”.