“Il processo diagnostico in età evolutiva può essere complesso, nella misura in cui non ci si voglia limitare a definire una diagnosi, categoriale o dimensionale che sia, ma spesso troppo specifica e non del tutto rispondente al profilo di sviluppo globale del bambino. Quello che dobbiamo ricordare è innanzitutto che esistono diversi livelli di compromissione: fra ciò che definiamo normalità o normotipia e quello che definiamo disturbo o patologia c’è tutta una variabilità dentro cui esistono vulnerabilità, atipie, tratti ecc. Quindi giungere a una diagnosi che sia più corretta e individualizzata possibile prevede una visione più ampia e approfondita, non solo del sintomo ma anche del processo”. Parte da qui Elena Vanadia, neuropsichiatra infantile dell’Istituto di Ortofonologia (IdO), per spiegare come un neuropsichiatra infantile possa aiutare gli psicoterapeuti in formazione della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Psicodinamica dell’età evolutiva IdO-MITE a focalizzare meglio i percorsi di valutazione e diagnosi.
Non solo, Vanadia apre a una riflessione. “Sempre più spesso vediamo bambini che nelle loro diverse fasi evolutive ‘accumulano’ delle diagnosi specifiche differenti, una dopo l’altra o anche in comorbidità. Per esempio disturbo del linguaggio prima, difficoltà di attenzione e/o disturbo dell’apprendimento poi. Ma- dice la neuropsichiatra- Per quanto sappiamo che esiste sicuramente una correlazione tra linguaggio e apprendimento, per esempio, la riflessione che stiamo facendo è se non esistano in realtà alcuni bambini che hanno delle vulnerabilità di fondo nel loro processamento, le quali si ripercuotono su ogni nuova abilità che il bambino è chiamato ad acquisire. Parliamo, ad esempio, di processamento delle informazioni, quindi in termini sensoriali, cognitivi, neuropsicologici; o di alterazioni a livello psico-affettivo, in termini di veri e propri blocchi maturativi o traumatici; o piuttosto di influenze di altra natura nella crescita emozionale e relazionale”. Se così fosse, intervenire solo su quel disturbo specifico- ovvero sul sintomo- vorrebbe dire “che il bambino si troverebbe a esprimere la sua difficoltà di fondo di fronte a ogni nuovo compito evolutivo”. Dunque bisogna “ragionare su come il bambino possa esprimere la o le sue difficoltà in un sintomo che viene poi definito ‘disturbo specifico’, laddove- evidenzia Vanadia- si tratta di bambini che attraverso degli interventi riabilitativi altrettanto specifici recuperano la loro difficoltà contingente per poi presentarne un’altra qualche tempo dopo”. Per la neuropsichiatra “per quanto sia insito nella definizione di disturbo specifico il fatto che può essere recuperato attraverso la terapia riabilitativa proprio perché riguarda solo una o più aree specifiche dello sviluppo, esiste tutta una serie di processi di base che andrebbero attenzionati e di variabili che andrebbero considerate perché- ribadisce- a volte il sintomo che osserviamo non è che la punta di un iceberg, è il segnale di qualcos’altro, anche più complesso, che rischierà di ripresentarsi ogni qualvolta il bambino si troverà di fronte a un nuovo compito evolutivo, ma anche e soprattutto quando quel bambino sarà adulto e dovrà affrontare un esame universitario, un nuovo lavoro, uno stress personale o familiare, al fallimento di un’amicizia, ecc”. Dunque, considerare che oltre le diagnosi ci sono esseri umani, i bambini, che in quanto tali sono esseri complessi e in divenire, e che esistono vulnerabilità meno manifeste ma talvolta più insidiose, “significa occuparsi oggi della salute mentale di quelli che saranno gli adulti di domani, con il dovuto profondo rispetto per la complessità”.