AUTISMO INFANTILE
La centralità della diagnosi precoce per un progetto terapeutico mirato
Il disturbo autistico rappresenta uno dei disturbi più complesse dell’infanzia perché chiama in causa tutti i fattori dello sviluppo determinando quadri clinici che, pur nella loro diversità, pongono notevoli difficoltà interpretative. I casi di autismo in Italia sono riscontrabili in un 1 bambino ogni 200, mentre venti anni fa il rapporto conosciuto era di 1 su 2.000. Un aumento drammatico del disturbo, che abbiamo constatato sia nell’aumento di richiesta di aiuto per questi casi che nelle attività di screening in collaborazione con le società di pediatria Fimp, Unp, Cipe e nelle strutture di accoglienza della prima infanzia.
Benché la causa del disturbo non sia ancora chiaramente definita, l’ipotesi più accreditata, tra clinici di diversa impostazione teorica, riguarda un’eziologia genetica o multifattoriale ad impronta neurobiologica.
Le principali difficoltà del bambino con un disturbo dello spettro autistico riguardano l’area delle competenze sociali (con un uso distorto dei comportamenti non-verbali, della reciprocità relazionale e della condivisione emotiva), la qualità della comunicazione e la presenza di comportamenti insoliti tipo le stereotipie, i manierismi e gli interessi sensoriali. Queste difficoltà determinano interferenze in tutte le aree, sia cognitive che affettive, e rendono la relazione e la comunicazione con il bambino autistico estremamente complessa.
Ed è proprio su questo tipo di interferenza che ci siamo soffermati, con le nostre ricerche, per capire le modalità attraverso le quali si dispiega il comportamento del bambino autistico e trovare gli strumenti utili ad agganciarlo.
A prescindere dalla eziologia, che come abbiamo detto è ancora da definire, gli sforzi del clinico devono essere rivolti a comprendere il tipo di funzionamento determinato dal disturbo autistico per trovare strumenti di valutazione, di comunicazione e di terapia idonei al contesto in cui opera. In questo tipo di ricerca, i nostri sforzi sono orientati da molti anni verso una definizione delle differenze che caratterizzano i bambini appartenenti alla grande categoria disomogenea dei disturbi dello spettro autistico e alla caratterizzazione di un intervento che prenda in considerazione la complessità del problema, non sottovalutando la specificità di ogni singolo bambino.
Un primo elemento importante, per poter parlare del nostro approccio terapeutico, riguarda la prospettiva teorica da cui siamo partiti e, grazie alla quale, abbiamo potuto condurre ricerche ed ottenere risultati considerevoli. Privilegiando, in un’ottica psicodinamica, una visione globale del bambino e del suo disturbo, abbiamo da sempre dato un’importanza fondamentale allo sviluppo affettivo come base per l’espletamento di tutte le funzioni cognitive. I recenti studi in ambito evolutivo e le scoperte effettuate dai neuro-scienziati della scuola di Parma hanno permesso di confermare la centralità della dimensione affettiva alla base di qualsiasi evoluzione del bambino, dando un ulteriore impulso al nostro lavoro.
Riteniamo, anche in base ai dati ottenuti con le nostre ricerche, che il deficit primario del bambino autistico riguardi la dimensione affettiva e non quella cognitiva, come le teorie di stampo cognitivo-comportamentale hanno affermato negli ultimi decenni. Questa divergenza di prospettiva teorica è responsabile di molti pregiudizi e incomprensioni, e porta a sterili contrapposizioni dovute, purtroppo, a una scarsa conoscenza del problema.
Pensare ancora che la dimensione affettiva chiami in causa necessariamente una colpevolizzazione delle madri significa misconoscere gli sviluppi della scienza in ambito evolutivo ed eludere la fatica di revisionare le patologie in base alle nuove conoscenze.
Come abbiamo avuto modo di sottolineare in diverse occasioni, anche le teorie di stampo psicodinamico più criticate dai loro detrattori hanno posto l’accento sulla difficoltà del bambino ad attivare un’adeguata responsività nella madre. Il nostro approccio è definito psicodinamico e non psicoanalitico per l’importanza che viene attribuita sia in senso teorico, sia come strumento tecnico, all’utilizzazione del corpo e all’interazione diretta con il bambino.
Trattandosi di un disturbo di origine genetica che riguarda tutte le aree dello sviluppo, riteniamo che l’obiettivo primario sia quello di lavorare sulle componenti sensoriali, integre ma non integrate tra loro, per attivare nel soggetto quel processo di sintonizzazione degli stati affettivi che risulta deficitario e che costituisce, invece, un elemento imprescindibile per qualsiasi interazione con l’altro.
Dalle intuizioni cliniche della dott.ssa Magda Di Renzo si è sviluppato questo approccio articolato, che si basa proprio sull’individuazione di un diverso deficit primario nel disturbo autistico, da cui poi scaturisce una differente valutazione e terapia. Infatti, se finora è stato generalmente considerato come primario il deficit cognitivo, basato sulla “teoria della mente”, adesso alla luce degli studi e dei risultati ottenuti è possibile affermare che le conseguenze del deficit genetico determinano un deficit primario affettivo, ovvero l’incapacità del bambino di attuare quel meccanismo di sintonizzazione affettiva che favorisce il riconoscimento di sé come individuo separato e della madre come agente di cure. Questa nuova visione ha permesso quindi di sovvertire i valori nella terapia sull’autismo, passando da un approccio con predominio della mente (“up-down”) ad un approccio con predominio del corpo e degli stati affettivi (“down-up”). Oggi parlare di dimensione affettiva significa attribuire valori al processo di sintonizzazione che viene a crearsi fin dai primi scambi di vita e che dipende dalla capacità, generalmente innata nel bambino, di far comprendere i propri bisogni attraverso lo scambio corporeo che la madre può modulare attribuendogli anche un significato sociale. Se il bambino non è in grado di stimolare la risposta della madre, quest’ultima si troverà a non poter corrispondere ai bisogni del bambino e ciò determinerà un’interazione sempre più difficile e un’impossibilità comunicativa.
L’impossibilità o la seria difficoltà a sintonizzarsi con le figure di riferimento impedisce il raggiungimento dell’empatia intesa come base imprescindibile per qualsiasi relazione con gli altri e per qualunque processo di apprendimento.
Come evidenziato dalla nostra ricerca sull’efficacia della terapia, sostenere la dimensione affettiva significa lavorare per l’ampliamento delle condotte cognitive e per l’apertura alla dimensione sociale. In questa prospettiva il deficit cognitivo viene considerato secondario a quello affettivo, ed è ad esso strettamente correlato nella misura in cui il bambino può colmare il proprio gap solo quando è in grado di condividere l’attenzione con l’altro imparando ad apprendere dall’esperienza, come avviene nel corso dello sviluppo. Infatti nel DSM-IV (il manuale clinico internazionale) viene attribuita la presenza di ritardo mentale nel 75% dei casi. Da sottolineare a questo proposito la diversa percentuale di ritardo mentale riscontrata nel campione di 135 bambini autistici presso l’Ido, che si è abbassata dopo la terapia al 44%, cifra che differisce considerevolmente. Ovviamente tale differenza è stata resa possibile dalla terapia da noi proposta che ha permesso di far emergere nei bambini le potenzialità intellettive che erano presenti ma inespresse. Inoltre, su un campione di 79 soggetti che hanno effettuato un percorso di terapia di almeno 2 anni presso l’Istituto, tale da consentire un re-test successivo, si è riscontrato un miglioramento generalizzato per tutto il campione. Infatti, il 40% dei soggetti considerati ha cambiato diagnosi mentre un ulteriore 24% è migliorato a tal punto da uscire dalla diagnosi di autismo.
Partendo da questi presupposti abbiamo concretizzato un progetto terapeutico intensivo, integrato e psicodinamico all’autismo – all’interno di un concetto globale di riabilitazione che coinvolga la famiglia e la scuola in una serie diversificata di interventi – il progetto Tartaruga, presentato il 12 novembre 2011 al Palazzo dei Congressi di Roma in occasione del convegno “Autismo infantile. La centralità della diagnosi precoce per un progetto terapeutico mirato”, a cui hanno partecipato circa 2.000 operatori. Tanto riscontro ci ha portato ad inserire sul sito dell’Istituto di Ortofonologia tutti i video degli interventi, le slide presentate e le domande che sono state poste, continuando così le riflessioni sul tema anche attraverso i contributi diversi che riceveremo via mail dalle persone interessate.
F. Bianchi di Castelbianco M. Di Renzo F. Zaza
F. Plescia M. Di Renzo
M. Di Renzo M. Stinà
F. Bianchi di Castelbianco M. Di Renzo
M. Petrillo M. Di Renzo
C. Marini M. Di Renzo
M. di Renzo L. Cerreti S. D'Errico F. Donaera
G. Zito F. Bianchi di Castelbianco M. Di Renzo
F. Milana M. Macrì S. Biagetti M. Di Renzo
I. Benedetti M. Di Renzo
S. Rocco G. Panella M. Di Renzo
Nei prossimi giorni saranno pubblicate le risposte alle altre domande